Levi Strauss diceva che il senso vero di un mito è il senso della sua ultima ricezione. Applicando il ragionamento a Bella ciao, ammettendo si tratti di una canzone-mito, la ‘ricezione ultima’ del celebre canto partigiano per gli adolescenti di oggi, magari non tanto in Italia ma sicuramente nel mondo, è legata all’arcinota serie televisiva Casa di carta. La popolarità della serie in questione ha stupito anzitutto gli attori stessi e il loro regista; doveva essere un menomo fatto spagnolo, così fu concepita La casa de papel, e invece si è inaspettatamente tramutato in uno dei film a puntate più visti nel mondo: per questo motivo Bella ciao è a sua volta e una volta di più (ci pensò già Yves Montand nei Sessanta a portarla con successo fuori d’Italia) risuonata urbi et orbi, nella sua nuova veste di inno resistenziale allo strapotere bancario, più ancora che come colonna sonora per un elaboratissimo colpo alla zecca spagnola. Almeno, questa è un po’ l’idea che mi sono fatto su Bella ciao-Netflix. Le banche e le borse affari spadroneggiano ciniche e micidiali? Cattelan gli alza un lungo dito medio, i giovani rapinatori mascherati cantano Bella ciao.
Le origini di Bella ciao sono tanto conosciute quanto antichissime: lo spunto del testo deriva da un celebre canto epico-narrativo a tema passionale, Fior di tomba (a sua volta derivante da un canto francese di cinquecento anni fa), che oggi non canta più nessuno, ma che nel secolo XIX risuonava in plurime versioni: in particolare in una variante diffusa in Piemonte orientale e in Veneto abbiamo la matrice testuale di Bella ciao. Sentite qua: “E questo è il fiore di Teresina / che xè morta per amor” (verso finale). Questo era invece l’inizio di un canto-evoluzione di Fior di tomba: “Una mattina mi sono alzata un’ora prima che spunta il sol / e mi son messa alla finestrella, ahi che pena ahi che dolor”. Il dolore è perché la protagonista, l’io cantante, sporgendosi dalla finestra scorge il suo innamorato mentre fa il furbo con un’altra, donde la di lei disperazione nell’appurare il tradimento. Costantino Nigra, il grande diplomatico piemontese del regno di Sardegna e poi del regno d’Italia, raccolse molte testimonianze di Fior di tomba. Era infatti un suo pallino quello di raccogliere canti popolari in giro per l’Italia settentrionale e la cosa era tanto risaputa che molti informatori gli trasmettevano testimonianze di questa e quell’altra canzone ascoltata il giorno x dall’informatore y. Il ‘Nigra’, com’è popolarmente chiamato dagli amatori il librone che raccoglie decenni di ricerche, è stato recentemente ripubblicato per Neri Pozza a cura di Jona, Castelli e Lovatto ed è un’edizione irrinunciabile per gli appassionati di folklore e canto popolare, giacché, rispetto alle precedenti edizioni einaudiane, ha allegati due CD audio con esecuzioni di buona parte dei canti raccolti. Nigra infatti, da cultore romantico quale era, non si curava di trascrivere le musiche delle canzoni che raccoglieva e si rammaricava eccome per questa lacuna non da poco. Le poche linee melodiche incluse nel suo volume erano trascrizioni regalategli da collaboratori che furono in grado di aiutarlo.
Per tornare a Bella ciao: se la discendenza del testo è indubbia, molti grattacapi ha dato invece la musica, riguardo alla quale anche studiosi autorevoli come Leydi e più recentemente Bermani hanno sempre tenute aperte tutte le porte proprio perché, anche se è probabile che la melodia si sia plasmata su un modulo appenninico ampiamente sfruttato anche per altre canzoni, a un certo punto qualcuno ha recentemente riconosciuto in un motivo yiddish registrato fortunosamente negli Usa nel 1919, Koilen, un’ascendenza che pareva sicura e allora si è fatta avanti la pista klezmer, che forse anche per l’esoticità del richiamo ha avuto e continua ad avere molta fortuna. D’altra parte, già che la musica di Fischia il vento, la vera hit dei partigiani, è il calco di una celebre canzone popolare russa, chissà che qualche alpino durante la ritirata di Russia non abbia orecchiato qualcosa di simile a Bella ciao per poi diffonderla in Italia una volta tornato (ipotesi peregrina ma non da scartare).
Mentre scrivo guardo video in rete e leggo l’ampia pagina su wikipedia concernente Bella ciao; tutti hanno qualcosa da dire, da precisare o rettificare e ancora in molti insistono, con una pervicacia che ha qualcosa di sospetto, sull’equivoco più diffuso e cioè che il canto sia nato dopo la seconda guerra mondiale oppure, altra panzana clamorosa, che la versione mondina sia anteriore a quella partigiana. Non è così: la bellissima versione mondina fu scritta a metà degli anni Cinquanta da un mondino ex partigiano che si chiamava Vasco Scansani e sul fatto che i partigiani, una sia pur minima parte di essi, la cantassero già tra il 1944 e il ’45 è ormai accertato da più fonti. La cantavano uguale a quella odierna? No, le parole erano un po’ diverse. Personalmente ho raccolto questa versione:
Era il 2017 e presentavo in un’affollata libreria torinese un mio libro sulla canzone in questione; verso la fine una signora alzò la mano per testimoniare che lei Bella ciao la cantava assieme alle sue giovani amiche ad Alba, nel 1944, quando aveva 11 anni. La cosa interessante è che, racconta Floriana Diena, la percezione di Bella ciao, nella visione infantile che lei ricorda, era proprio la libertà in senso lato e non solo dall’oppressore tedesco, ma anche dal mondo adulto. Nel senso che gli adulti erano i partigiani barbuti e stalinisti con la loro Fischia il vento cantata a tutta birra; i giovanissimi, invece, i troppo giovani per partecipare con le armi alla Resistenza, quando non i bambini di undici anni, avevano la libertà di contrapporre una canzone, la loro canzone, innocente, ispirata, non di parte, senza nessun richiamo alla politica schierata, senza bandiera: appunto Bella ciao, che sicuramente assolveva in pieno a questa possibilità di smarcarsi dal mondo dei grandi con un canto ritmato, facilmente memorizzabile e con la scansione intonativa di quel triplice ciao ciao ciao così festosamente lontana dai severi testi dell’innodia resistenziale. In parole povere era, o poteva anche essere, una risposta a Fischia il vento. Addirittura una canzone anti-rossi? Perché no? In fondo la cantavano le brigate autonome del comandante Mauri (che con i garibaldini arrivarono anche allo scontro); sicché…Altro che comunisti!
Insomma, se le cose stavano così, chi lo spiega adesso alle decine di migliaia di italiani che hanno comprato i libri di Giampaolo Pansa? Come convincerli che Bella ciao, nei lunghi anni della guerra fredda, era (anche) la lettura del 25 aprile di chi dal PCI si teneva ben lontano? Era la canzone che il democristiano Benigno Zaccagnini cantava pubblicamente (proprio mentre poco lontano Amendola, Longo e Pajetta cantavano Fischia il vento o Dalle belle città) ed era cantata dai boy scout come dalle comitive apolitiche, per forza, di pre adolescenti in gita scolastica.
A proposito delle distorsioni passate e presenti di Bella ciao, comincio a convincermi che il problema-non problema delle origini costituisca un debole diversivo rispetto al punto di fondo della canzone oggi, che risiede piuttosto nella sua diffusione su scala internazionale (recentemente e grazie a Casa de Papel? Manco per idea: in realtà già dalla fine degli anni quaranta). Ma torniamo agli anni della guerra civile in Italia: Bermani censisce numerose testimonianze circa la diffusione di Bella ciao pre-primavera 1945, allorché, sia pure frammentaria risuonava in diversi scenari. In particolare era cantata fin dall’autunno del 1944 dai combattenti abruzzesi che, incorporati nell’VIII armata dell’esercito alleato, liberarono Bologna; così terminava la loro versione: “è questo è il fiore della Maiella / del patriota che morì”. A mia volta, come dicevo, ho raccolto la testimonianza di Floriana Diena, classe 1933, che nell’ottobre del 1944 la imparò ad Alba, proprio durante i ventitré giorni della Repubblica partigiana resi celebri da Beppe Fenoglio. Eccone i versi conclusivi: Là sui monti c’è un cimitero – o bella ciao…là sui monti c’è un cimitero / cimitero dei partigian. Cimitero dei partigiani – o bella ciao…cimitero dei partigiani, morti per la libertà.
Se aggiungiamo che altri e più numerosi informatori hanno raccontato (e sono testimonianze che risalgono principalmente alla seconda metà degli anni sessanta raccolte da Bermani) di averla cantata durante le settimane della modenese Repubblica partigiana di Montefiorino, dove circolava in una versione assai prossima a quella attuale, siamo già a quota tre agenzie formative, per così dire, di questa celeberrima canzone non già delle mondine, delle sardine o di Casa de Papel, ma proprio dei partigiani; e quel che più interessa, dal punto di vista della diffusione areale, è che si tratta di tre zone non limitrofe. Oltretutto in due casi su tre (semplice coincidenza?), la canzone prende forma e si diffonde durante altrettante repubbliche partigiane (Alba e Modena), cioè in corrispondenza di frangenti cronologicamente limitati a poche settimane, ma pur corrispondenti a piccole catarsi popolari, con la gente che si riversava nelle piazze senza tema di bombardamenti; con anziani, bambini, giovani, militari e partigiani che si mescolavano in confusa simbiosi e insomma, verosimilmente, qualche bottiglia si stappava, qualche fisarmonica dava il tempo e tutti cantavano con meno paura di prima, all’aperto, e forse anche radio Londra si ascoltava senza chiudere le gelosie delle finestre, per paura che un vicino di casa facesse una spiata al federale di zona.
Suggestioni e immaginazione a parte, torniamo alla canzone: 1944, Abruzzo, Emilia e Langhe: poligenesi di uno stesso canto che modella testi diversi sulla stessa melodia? Possibile, ma poco probabile. Più facile pensare che il passaparola tra le bande dei ribelli si muovesse più rapido degli eserciti arenati al di qua della linea Gustav e che, già ai tempi, Bella ciao fosse naturaliter tirata un po’ per la giacchetta, per cui ognuno la intruppava a suo modo, affibbiandole i connotati del caso (donde le diverse lezioni), ciò che rende abbastanza superfluo cercarne oggi una versione primigenia a tutti i costi. Addirittura ci fu chi come Rinaldo Salvadori, informatore di Bermani, giurò di averla sentita cantare anche così: “O badogliano, portami via”. Se la cosa ci fa sorridere è solo perché sono passati quasi ottant’anni, ma ai tempi il binomio partigiano-badogliano (presto sostituito dall’equivalenza ben più durevole partigiano-patriota) evidenziava che dopo quasi un quarto di secolo di regime dittatoriale, c’era finalmente un nuovo premier, colui che già dall’indomani del 25 luglio prendeva contatti con gli alleati e che il 15 ottobre 1943 dichiarò ufficialmente guerra al Terzo Reich, per cui l’entusiasmo sarà stato notevole e spesso i comandanti militari più preparati, dopo l’8 settembre, se sceglievano la Resistenza armata contro i nazifascisti, era probabile che confluissero nelle bande del maresciallo Badoglio.
Divagazioni a parte, non dimentichiamo che le canzoni, com’è di norma in qualunque guerra, rivestivano una significativa funzione identitaria e se tanto era ‘sovietica’ la garibaldina Fischia il vento, la cui irruenza fu stigmatizzata in una pagina del Partigiano Johnny di Fenoglio, la non faziosa Bella ciao, così riconoscibilmente derivativa dal passionale e arcaico Fior di tomba, si dimostrò funzionale a partigiani (anche) ideologicamente ostili ai rossi. A lungo andare sarà un famoso giornalista albese, Aldo Cazzullo, a far presente, nella rubrica del Corriere della Sera dedicata alla quotidiana corrispondenza, che proprio nelle Langhe dei Sessanta-Settanta, dove la DC in alcuni paesi superava l’80%, Bella ciao e il 25 aprile erano un tutt’uno. Questo a riprova del fatto che, se in così tanti oggi tingono di rosso-Soviet quella canzone, è perché la storia, quando sembra appena un po’ più complessa rispetto al derby tra comunisti e fascisti (questo è il 25 aprile per Matteo Salvini), la storia, dicevamo, poco interessa e che comunque l’istinto truffaldino alla semplificazione massima e alla contrapposizione manichea rischia di soppiantare il desiderio di conoscere, o di volerne anche solo sapere un po’ di più.
Carlo Pestelli