Antefatto
Per Johann Sebastian Bach galeotto fu l’incontro con Dietrich Buxtehude, non certo quello con la figlia. Era il 1705 e Bach chiese un permesso di quattro settimane alle autorità di Arnstadt, cittadina presso la quale ricopriva il ruolo di organista, per recarsi a Lubecca. Lì nella chiesa di Santa Maria era organista Buxtehude, che Bach voleva assolutamente ascoltare, oltre che incontrare.
Vi sono poi una marea di dicerie attorno a questo avvenimento e le più curiose raccontano che Bach rimase un plausibile successore del colto maestro tedesco-olandese finché il ventenne non conobbe la figlia di Buxtehude. Era allora in auge l’usanza che l’aspirante successore di un’organista ne sposasse la figlia per suggellarne l’eredità, ma ecco, stando ai racconti, la figlia di Buxtehude non brillava certo per bellezza e Bach non prese mai in considerazione l’idea di sposarla.

Insomma, anche se non ne divenne il successore all’organo, quello con Buxtehude fu l’incontro più significativo nell’evoluzione stilistica bachiana. Non per nulla il ventenne rimase a Lubecca quattro mesi e ascoltò segretamente Buxtehude nella chiesa di Santa Maria.
Tornato ad Arnstadt con ben dodici settimane di ritardo e l’unica scusa di essersi trattenuto per approfondire «cose importanti riguardo al modo di suonare l’organo» provocò un vero e proprio scandalo: le autorità ecclesiastiche erano così adirate che dopo un solo mese lo licenziarono. Il problema non fu solo quel piccolo ritardo ma il fatto che, di ritorno dal suo viaggio, Bach cominciò ad accompagnare la congregazione in maniera sempre più ardita nel canto dei corali, con modulazioni tali che la comunità si perdeva spesso nel cantarli o, cosa mai successa, non attaccava proprio.
Di certo Bach covava queste possibilità già prima di conoscere Buxtehude, ma esse emersero con maggiore facilità grazie a quell’incontro che indusse Bach ad appropriarsi di alcune caratteristiche compositive del maestro tedesco-olandese, come quella relativa al trattamento del corale luterano.
Salto temporale.
È il 1714 e Bach, ora organista di corte a Weimar, comincia a lavorare all’Orgel-Büchlein, una raccolta di brani organistici con finalità didattiche che non solo è la prima esternazione del pensiero didattico bachiano ma anche la prima raccolta organica di corali. L’Orgel-Büchlein nasce infatti come «conseguenza della prassi di cantare il corale a quattro voci in coro, con il cantus firmus affidato al soprano» [RADULESCU, 1991]. Questa caratteristica già si ritrovava in qualche corale ad Arnstadt, ma nei quarantacinque brani realizzati per la raccolta (ne aveva previsti 164!) diventa sistematica.

E il punto culminante di tutta questa raccolta fa toccare con mano il momento della meditazione del credente sul mistero della Passione e della Redenzione. È il corale ornato O Mensch, bewein’ dein’ Sünde gross, un corale per la prima volta pubblicato in una raccolta di salmi apparsa nel 1526 a Strasburgo e curata da Sebald Heyden. Bach lavora su questo cantus firmus, ovvero su questa melodia preesistente, in maniera del tutto singolare attraverso l’uso di fioriture, che altro non sono che ornamentazioni alla melodia che qui vengono usate per evidenziarne la drammaticità del momento.
O Mensch, bewein’ dein’ Sünde gross ha ben ventitré strofe che narrano tutto l’iter della Passione, delle quali vi riporto solo la prima in traduzione italiana:
O uomo, piangi il tuo grande peccato, per il quale Cristo ha lasciato suo Padre ed è venuto in terra; da una Vergine pura e dolce è nato per noi, per essere mediatore. Ai morti ha dato la vita e ci ha sanati da tutte le malattie fino al tempo in cui venne sacrificato per noi; portò poi il grave peso dei nostri peccati proprio sulla croce.
Fortissima emerge, in questo racconto della Passione, l’allusione al Natale che Bach richiama citando nelle voci intermedie il corale natalizio Vom Himmel hoc, da komm ich her, ma la principale caratteristica risiede nella struttura a forma di canzona, che veicola in maniera quasi teatrale, il significato testuale. La prima parte è dominata da una ripetizione melodica che si piega nel canto, quasi ad accompagnare il pianto dell’uomo di fronte al suo peccato. La seconda parte, più ricca e più libera, è armonicamente davvero ardita. Soprattutto nel finale, quando a un passo della conclusione (e dalla crocifissione) Bach chiede un adagissimo e si inoltra in una tonalità impensabile in quel contesto per l’epoca. Questa estrema lentezza sembra quasi voler sottolineare dal punto di vista più umano la percezione di un tempo che sembra non scorrere di fronte al Cristo appeso alla croce. Il passaggio in Do bemolle maggiore, come evidenzia Radulescu, non fa altro che rendere quella sofferenza viva, ancora più pulsante. La commozione è forte e coinvolge tutte le voci.
Sguardi al futuro
Bach doveva essere particolarmente affezionato a questo corale perché poi utilizzerà lo stesso cantus firmus per un gigantesco corale della Matthäuspassion che, in una modalità così diversa, raggiunge la stessa profondità musicale. Questo appena descritto dell’Orgel-Büchlein, confrontato con quello della Passione di Matteo, sembra anticipare una pratica che una volta raggiunta Lipsia divenne per Bach un’abitudine. Ovvero l’improvvisare sulla melodia di un corale per offrire alla comunità un’occasione di ascolto puro e dunque anche di meditazione: il corale organistico diventa dunque un «momento di stasi dell’azione liturgica, destinato alla individuale meditazione sul testo del corale».