Come promesso ecco un piccolo racconto di quella che nonostante gli anni rimane la mia La Traviata del cuore. È stata criticata da molti nel suo primo allestimento a Salisburgo nel 2005, è stata definita volgare, eppure i miei occhi l’hanno sempre guardata in modo diverso. L’hanno sempre vista così.
Sed fugit interea fugit irreparabile tempus: ce lo ricorda quell’orologio dalle lancette gigantesche, vero protagonista de La Traviata nell’allestimento di Decker. Imponente e fatale giace sullo spoglio palco bianco e osserva una Violetta dalla quale non si potrebbero togliere gli occhi, se lui non ci fosse. Anna Netrebko, con la sua bellezza vestita di rosso, non convince sempre ma toglie il fiato. La sua vissuta espressività si palesa già nel Preludio quando aprendo affaticata la massiccia porta guarda la Morte negli occhi e, consapevole del proprio destino, accetta la sua bianca camelia. Una vera Violetta del ventunesimo secolo la cui coloratura leggera regala un primo atto alle soglie della perfezione. Perfezione più lontana per i due atti successivi nei quali la Netrebko si slancia in qualche acuto un po’ spinto che viene subito dimenticato per la coerenza nell’interpretazione di questa Violetta, così contemporanea da poterne immaginare l’immagine profilo di Facebook.
Accanto ha un Alfredo più impacciato: Rolando Villazon, nel suo non essere padrone quanto la Netrebko del proprio ruolo, dà vita però a un Alfredo estremamente ‘fresco’, giovane e perfettamente credibile. Il suo timbro, anche se più veemente, ben si sposa con quello dell’amata e non delude nelle parti solistiche. Anche l’errore di aver cantato in scena il pertichino, data la goffaggine del giovane Alfredo, sembra quasi una scelta voluta e coerente con l’interpretazione di Villazon. Lo stesso Germont viene presentato come un uomo severo dei nostri giorni: Thomas Hampson dà così risalto al tormento di questo padre che dal suo Di provenza il mar il suol si potrebbe quasi formulare una nuova teoria degli affetti, dei quali il direttore Carlo Rizzi ha fedelmente seguito le inclinazioni in una direzione sobria che rispetta gli usuali tagli.
Una Traviata incorniciata definitivamente all’interno del ventunesimo secolo grazie alla maestria di Decker che la arricchisce di una ricca simbologia caratteristica del contemporaneo: il maschilismo delle fattezze da velina che talvolta la Netrebko è costretta ad assumere, l’agognata ‘parità dei sessi’ ormai sconfinata nell’irrealtà attraverso il travestimento maschile per le coriste, la vacuità dell’ideale di bellezza femminile propugnatoci dai mass-media nella marionetta calata al momento del Coro di Zingarelle e nello stesso momento la grottesca apparizione del trans-velino.
Una Traviata di vera denuncia alla massificazione che non ci fa dimenticare quanto le regie contemporanee possano essere estremamente interessanti e che ci ricorda che se tempus fugit si dovrebbe avere il coraggio di guardarlo negli occhi e accettarne la sua bianca camelia.
Veronica Pederzolli