Quanta musica nel silenzio, quanta attesa, quanto desiderio.
È già stato detto molto su quella «scelta grave e sofferta» che ha visto chiudere nuovamente tutti i teatri e le sale da concerto in Italia, un colpo durissimo per la musica e per chi con essa sopravviveva, da libero professionista. Un’ingiustizia, soprattutto a fronte del rapporto diffuso dall’Agenzia Generale Italiana per lo Spettacolo che nel fotografare la situazione di contagio dal 15 giugno a ottobre parla di un solo caso di positività su oltre 340mila spettatori monitorati. Una scelta forte che ancora una volta toglie la cultura dal suo ruolo di guida e di veicolo principe dell’espressione di una società.
Era notte quando nel 1793, in piena rivoluzione francese, Friedrich Schiller di fronte a un lume di candela scrisse: «Non è forse estemporaneo preoccuparsi delle necessità del mondo estetico, quando il mondo politico è scosso da problemi così vicini a noi?». Si rispose qualche anno dopo nel suo Lettere sull’educazione estetica dell’uomo confermando l’idea che poi fu eletta a cardine del ruolo della cultura nella società moderna europea, ovvero la sua capacità di analisi della complessità e il suo essere banco di prova per la politica, strumento per la ricerca di soluzioni anche nelle situazioni più difficili.
In uno scenario come quello odierno, che verosimilmente preluderà a una crisi ancora più importante, economica e culturale, i politici sembrano essersene dimenticati e chiedono alla cultura di tacere, gettando sul lastrico i suoi lavoratori. Per fortuna per questi ultimi la cultura non è solo lavoro ma una missione che investe la vita: non basterà estirparla momentaneamente dai suoi luoghi istituzionali per riuscire a farla stare zitta. La cultura vive anche nel silenzio.
E allora si curi questo silenzio, lo si coltivi nel guardarsi dentro, rivivendo ciò che è stato e come movimento verso qualcosa di nuovo. Si approfitti di questo silenzio per cercare strade verso una dignitosa considerazione dei lavoratori dello spettacolo, a partire dall’urgente questione della tutela, e senza arrendersi al “finora nessuno ci è riuscito”. Si approfitti per riguardarsi nel profondo e cominciare a ridefinire un mondo che da questa crisi ne uscirà cambiato.
«Tutto ciò che facciamo è musica», dichiarava John Cage dopo l’esperienza in una camera anecoica, dove non sentì il nulla ma il circolare del proprio sangue oltre che il battito cardiaco. Compose così Silence nel 1961, brano che all’ascolto rimanda la mente ai White Paintings di Robert Rauschenberg o al Waiting for Godot di Samuel Beckett. I Berliner Philharmoniker lo hanno scelto, eseguito e registrato il 2 novembre alla vigilia del lockdown tedesco per richiamare ancora una volta l’attenzione sulla difficile situazione degli artisti a seguito della chiusura delle istituzioni culturali. Una protesta composta, intellettuale, a cui prima o poi di dovrà rispondere. Qui il video:
Veronica Pederzolli