Più conosco il mondo e più mi convinco di quanto la vera specializzazione vada oltre l’acquisizione di competenze specifiche. Nella grandezza, quella grande per davvero, fare ed essere non sono poi così lontani, anzi: si è per fare e si fa per essere. Basta poco, sentirlo raccontare un programma o parlare di un suo pezzo, per capire che Nicola Campogrande fa parte di questi speciali più che dei specializzati. Compositori tra i più grandi che l’Italia conosce al giorno d’oggi apre le braccia e crea ponti verso l’ascoltatore con la sua musica, ma valorizza e divulga anche quella degli altri in quanto direttore artistico di MITO SettembreMusica e autore di diverse pubblicazioni. Da conoscere come artista e come uomo.
Maestro Campogrande, lei è un creativo della musica ante litteram: non solo la compone, ma la organizza, la divulga e ne scrive. Come le arrivano tutte queste idee?
Se ci si pensa, sono solo altre declinazioni dell’attività del compositore. L’attitudine che ha chi fa un mestiere come il mio è quella di incastrare, di mettere insieme, di com-porre (in latino era: componere). Noi compositori troviamo il modo per disporre in sequenze ritmi, note, timbri, frasi, strutture, e cerchiamo di farne qualcosa di bello. Così come accade quando si stende la programmazione di una stagione sinfonica o il cartellone di un festival. E poi, avendo imparato bene a gestire il procedimento, è un peccato tenere il segreto solo per sé; di qui nasce la mia voglia di condividerlo, di parlarne alla radio o in tv, di annotarlo sui miei saggi divulgativi: più persone scoprono come funziona la musica classica e meglio è. Non crede?
Cosa significa essere compositori nel 2020 e pubblicare per Breitkopf & Härtel, la stessa che collaborò con grandissimi come Beethoven, Mendelssohn, Schumann, Brahms e Wagner?
Sapere che la mia musica viene pubblicata dalla più antica casa editrice del mondo – la Breitkopf & Härtel ha più di trecento anni di vita – per me è naturalmente un onore. Ma anche una grossa responsabilità. Lavorando con loro sono costretto a pormi una questione di chiarezza, di coerenza e di autosufficienza della scrittura: potenzialmente, tra altri trecento anni, in qualche parte del mondo qualcuno potrebbe prendere in mano una mia partitura e deve poterla eseguire senza darmi un colpo di telefono per capire meglio se quel certo crescendo porta a un mezzopiano o a un mezzoforte, se comincia sul quarto o sul quinto sedicesimo della battuta, se la legatura sulla linea del violoncello indica una frase o il cambio dell’arco. E poi c’è un discorso di immediatezza della lettura: talvolta in musica ci sono modi diversi di indicare lo stesso risultato, ma, al di là delle preferenze soggettive, delle personali visioni del compositore, uno solo è quello più efficace: ecco, con la Breitkopf si mette a fuoco il punto, e si è costretti a raggiungere una chiarezza cristallina. Per capirci: non che prima le mie partiture fossero imprecise, o frettolose: al contrario, ero tendenzialmente considerato un compositore meticoloso, talvolta rompiscatole. Ma adesso, dopo i primi confronti molto serrati con gli editor scrupolossissimi della casa editrice, devo ammettere che il modo stesso di pensare alla scrittura della musica (cioè a ciò che mi tiene impegnato per molte ore tutti i santi giorni!) è davvero cambiato.
Anni fa si sentiva l’urgenza di riavvicinare la composizione classica al pubblico, e viceversa. Oggi possiamo dire – e lei ne è un esempio – di essere riusciti a farlo. Coronavirus a parte, quale crede possa essere l’urgenza dei nostri giorni?
Coronavirus a parte, la musica classica, in sé, sta benissimo. In tutto il mondo ci sono compositori straordinari, interpreti emozionanti, orchestre di giovani che suonano come professionisti navigati, e sale piene. Per lo più di un pubblico che scopre Mozart e Beethoven (o John Adams o Arvo Pärt) solo a un certo punto della sua vita, magari quando è meno assillato dai figli da gestire o da una carriera da coltivare; ma li scopre. Diciamo che se collettivamente riuscissimo a essere più consapevoli che ascoltare musica classica ci fa stare meglio, che se impariamo a farlo da bambini ne possiamo godere più a lungo, che lo sforzino di uscire di casa per entrare in sala è ripagato, con gli interessi, in emozione, gioia, bellezza, ecco, non sarebbe male.
In quanto direttore artistico e compositore: sente che quel triangolo tra committenti , compositori ed esecutori andrebbe maggiormente considerato in Italia?
Scrivo solo su commissione, ormai da quasi trent’anni. Perché penso che condividere con qualcuno il desiderio, la voglia di far nascere un nuovo brano, sia una cosa bella, e importante. Qualcuno, scoprendolo, si sorprende e pensa che un compositore potrebbe essere più «libero» o «felice» se non dovesse rispondere a una commissione. Beh, è vero il contrario: sapere che c’è qualcuno che aspetta la tua partitura è un modo meraviglioso per tenere viva la creatività, e non certo una limitazione. Stravinskij diceva che «non ci sono catene peggiori di quelle della libertà», e aveva ragione: per lavorare un compositore ha bisogno di paletti, di limiti, così come un pittori ha bisogno che la tela abbia una dimensione fissata, che ci sia una cornice, che il lavoro sia affrontato con colori a olio piuttosto che con un pennarello. Se valesse tutto, l’opera non varrebbe niente.Detto ciò, in Italia si fa una fatica maledetta per ricevere una commissione. La colpa in parte è della brutta musica che si è scritta per decenni, va riconosciuto. Ma oggi, con tutte le splendide partiture che nascono e fanno la gioia di orecchie, cuore e cervello, il fatto che solo pochi illuminati capiscano che commissionare un brano è un gesto per condividere bellezza (e qualche volta anche per passare alla storia della musica) è un vero peccato.
Proprio su commissione per il Teatro Petruzzelli di Bari ha composto quest’anno l’opera La notte di San Nicola. Quali caratteristiche devono avere delle pagine che, come queste, si rivolgono a un pubblico giovanile?
Mi piace molto scrivere per un pubblico giovane, ma a due condizioni: quella di non considerare i piccoli ascoltatori come “adulti senza qualcosa”, e quella di lavorare a partiture destinate anche a una platea generale. Perché scrivere per bambini e ragazzi richiede di offrire di più, non di meno, come talvolta qualcuno pensa. La notte di San Nicola è nata così: la potranno vedere e ascoltare bambini e ragazzi, ma sarà offerta anche a un pubblico di adulti, perché i suoi cinquanta minuti raccontano una vicenda universale, e forte, con una musica che non sarebbe stata composta in modo diverso se la commissione fosse nata in un contesto che non prevedeva ragazzi in platea. Mutatis mutandis, e con tutta l’umiltà e l’imbarazzo del mondo perché in quel caso si tratta di un capolavoro, se un adulto ascolta Hänsel e Gretel di Humperdinck non pensa di essere davanti a un’opera semplificata o bambinesca. Come peraltro accade con un cartone animato di Miyazaki (e lo dico con altra umiltà e altro imbarazzo, sia chiaro): se uno crede che Porco Rosso sia un film solo per bambini, non ha capito niente. La chiave, per me, è tutta lì.
Nella sua Divina Commedia musicale quale compositore incontrerebbe all’inferno? E per quale peccato musicale?
Sono buono per natura e spero tanto di non finire all’inferno. Anche perché temo che mi costringerebbero ad ascoltare la musica delle vecchie avanguardie europee, quelle che dagli anni Cinquanta del Novecento hanno occupato le sale con partiture che facevano la guerra alle orecchie e al cuore.
Oggi se c’è una cosa che va di moda è il target. Nel momento in cui compone lo fa sempre pensando a una precisa fascia di ascoltatori?
Ma no! Scrivo musica perché mi piace farlo e perché qualcuno me la commissiona. Penso agli interpreti, quando li conosco, e a come loro affronteranno una pagina, una frase. Poi però lavoro in modo astratto, perché la mia musica è abbastanza eseguita, e passa da un interprete all’altro talvolta cambiando di segno, di significato, come è bello che accada. Chi la ascolta ne gode, di solito, e dunque direi che il gioco funziona. Mentre se mi chiedessi come accontentare una fascia di pubblico scriverei musica «di genere», come si fa con le colonne sonore, nella quale tra compositore e ascoltatore ci si scambia poco perché si sa già prima come una partitura è fatta, come si svilupperà e come andrà a finire.
Ha appena ricevuto un invito da Beethoven per la sua festa di compleanno, 250 anni. Per presentarsi può portare una sua composizione, quale sceglierebbe? E con che regalo arriverebbe a Vienna?
Per decenni si è pensato che il futuro fosse immaginabile solo dimenticando il passato. Oggi ci sono compositori – e io sono tra questi – che, per immaginare il futuro, studiano il passato. E forse a Beethoven farebbe piacere sapere che alcune sue idee generali continuano a essere feconde e a generare frutti – penso al fatto di inventare temi riconoscibili, o a quello di giocare con il ritmo e divertirsi, o al non aver paura nel sentirsi solitari. Forse gli porterei il mio Nudo per pianoforte. O il Concerto per pubblico e orchestra. O gli darei l’indirizzo del mio web, per lasciarlo scegliere.
Nel cassetto custodisce il sogno di poter scrivere per qualche esecutore in particolare?
Oddio, quelli che amo, in tutto il mondo, sono decine e decine. Ogni tanto qualcuno si fa vivo, e mi illumina la giornata (e qualche mese di lavoro) chiedendomi un pezzo. Per cui, per scaramanzia, è meglio non fare nomi.
Qualche progetto futuro?
Continuare a comporre per 5-6 ore al giorno, dal lunedì al venerdì. È un ritmo che per me funziona bene. Per ora ho commissioni fino al 2023, da brani solistici a pezzi per orchestra. E poi vedremo.
Un consiglio per i giovani compositori?
Avere pazienza e lavorare. Molto. Perché trovare la propria strada, il proprio stile, è difficilissimo, e non ci sono scorciatoie. È bene saperlo.
Veronica Pederzolli