“Non ascolto musica classica perché è troppo difficile, non ci capisco nulla”. Quante volte ho sentito dire questa frase e quante volte ho risposto con fermezza che non è cosi, non può essere. Altrimenti nessuno di noi – pasticceri esclusi – potrebbe assaggiare una torta stellata e solo uno stilista potrebbe dire la propria su un outfit. Invece siamo abituati a esprimere il nostro parere su ciò che assaggiamo e a bocciare o premiare come qualcosa da urlo il nuovo look dell’amica. Lo facciamo con la tranquillità dell’opinione e carichi di comode sovrastrutture create dalla società. Perché in musica non potrebbe essere lo stesso? Capisco che l’abitudine indotta nell’ascolto non riesca ormai a superare i quattro minuti e privilegi la semplicità – per non dire pochezza – delle proposte, ma allo stesso modo in cui talvolta scegliamo di mettere un vestito più impegnativo di quelli scelti nel quotidiano potremmo fare lo stesso con la musica. E potremmo farlo con tranquillità, perché in musica non esiste risposta giusta, solo la propria.
Essa è prima di tutto esperienza di forte impatto emotivo, esperienza da godere e da divertirsi a guardare dall’interno: nel chiedersi “Cosa ho provato? Come sto ora?” al termine di un ascolto scopriremo di aver capito più di quanto credevamo, della musica e di noi stessi. Immaginate poi se vi proponessi un ascolto lontanissimo dalla nostra cultura: lo riconoscereste immediatamente come qualcosa di diverso da ciò che vi è familiare e questa è già una grande competenza, ma sapreste anche descriverlo attraverso l’intelligenza emotiva.
Lo dimostra uno studio sperimentale condotto da Samuel Mehr per la Harvard University e Manvir Singh. I due studiosi, dopo aver chiesto a 750 persone di 60 nazionalità diverse di ascoltare un brano di 14 secondi, hanno evidenziato l’esistenza di strutture musicali intrinsecamente correlate alle emozioni che possono essere percepite da persone di culture molto diverse tra loro dopo aver ascoltato un solo brano molto breve. Infatti, in media, ’idea che i partecipanti si erano fatti al primo ascolto di un brano corrispondeva alla sua funzione originale.
Essenza della musica è però anche l’indicibile: per questo si parla di funzioni, di emozioni e non di significato. Nella musica, a differenza degli altri linguaggi, non esiste un legame diretto ed esclusivo tra significante e significato e viceversa. Il musicologo Hans Eggebrecht per esempio scrisse che nel suono il significato «sta tutto racchiuso nel suo contenuto sensibile, non è separabile dal suo risuonare, che non può essere tradotto in nient’altro di udibile. Una parola suona, cioè “significa”, una nota risuona, cioè “è”; il significato della nota è essa stessa». Allo stesso modo Claude Lévi-Strauss riconosceva il privilegio della musica «nel saper dire quello che non può essere detto in nessun altro modo». Insomma, da che parte la si voglia guardare la profondità della musica fa continuamente appello alla nostra profondità.
Lo spiegò in parole semplicissime anche Leonard Bernstein nel primo dei suoi Young People’s Concerts. Spinto dal desiderio di crescere degli ascoltatori più consapevoli inaugurò le sue lezioni concerto dichiarando: «Il significato della musica è il modo in cui vi fa sentire quando la ascoltate. […] Se ci trasmette qualcosa – non una storia o un’immagine, ma un sentimento – se ci fa cambiare dentro, allora la stiamo comprendendo. […] E la cosa più fantastica di tutte è che non c’è limite alla diversità di sentimenti che la musica può trasmettervi».
E questo è anche il motivo per cui dovremmo ascoltare musica nuova, sempre. Lo stesso che Umberto Eco suggeriva per la lettura: vivere mille volte di più di quanto potremo fare nella nostra vita.
Questa settimana scegliete voi cosa ascoltare. Unico consiglio: mettetevi alla prova.
Veronica Pederzolli