Lo so, è da un po’ che non scrivo. La voglia di vacanza, il rifiuto del computer dopo tutto il periodo di didattica a distanza e una grande necessità di ricevere leggendo piuttosto che raccontare. Il silenzio lo rompo solo per un momento e grazie a un brano che mi ha sempre fatto da “Enervit”, il rito prima di ogni esame universitario o di qualche colloquio di lavoro, uno dei preferiti nelle cuffie durante le passeggiate solitarie nella natura. Da anni ha questa funzione e spero che Brahms non me ne voglia, perché il suo Concerto in re maggiore op. 77 per violino mi fa sentire viva, pronta, felice e scattante come un integratore sportivo non è mai riuscito a fare.
Lo scrisse in estate a Pörtschach, villaggio della Carinzia in cui era solito soggiornare: era il 1878 e Brahms era appena tornato dal suo primo viaggio in Italia. Aveva quarantacinque anni e per un animo così inquieto quella fu una stagione felice. «Qui fluttuano tante melodie che si deve stare attenti a non calperstarle», scriveva allora ad Hanslick e la tranquillità formale e creativa di queste pagine, come sottolinea Daniele Spini, lo testimonia.
Nonostante il momento felice Brahms non riuscì ad abbandonare la sua caratteristica autocritica e non mancò di consultare Joseph Joachim, uno dei più grandi violinisti del tempo e suo grande amico: «mi basta che tu dica una parola o ne scriva qualcuna sopra la parte: difficile, scomodo, impossibile e così via». Joachim a una prima vista lo ritenne ineseguibile e, dopo aver sciorinato tutta una serie di consigli di tecnica violinistica, assicurò però a Brahms: «C’è davvero molta buona musica violinistica in esso, ma se potrà essere agevole suonarlo nel calore di una sala da concerti, resta tutto da vedere». Brahms questa volta ascoltò i suggerimenti dell’amico ma non ne accolse la maggior parte e conservò la propria stesura, così virtuosa da spaventare qualsiasi violinista dell’epoca e da rimanere ancora oggi un passaggio doveroso per tutti i grandi concertisti. Solo una cosa lasciò in bianco, come era uso fare ai tempi di Mozart: la cadenza. Ci pensò dunque Joachim, che il primo gennaio 1879 a Lipsia eseguì il Concerto sotto la direzione del compositore e il successo fu così grandioso che qualche mese dopo l’Università di Breslavia conferì a Brahms la laurea honoris causa.
E come si fa a non innamorarsi del primo tempo, quell’Allegro non troppo così colmo di contrapposizioni tra il solo e l’orchestra da far ripensare a Beethoven. Sembra quasi un temporale estivo, con il cielo a chiazze sereno, in cui il solista, fradicio, dà voce alla sua tempesta interiore.
Il sereno, con un pizzico di malinconia, arriva estatico nell’Adagio. Il violino per un poco sta in disparte ad ascoltare quella magia creata dai fiati e quando entra la fa dimenticare: sembra sia l’anima qui a parlare, delicata, appassionata. Sorprende la lunghezza così riuscita delle arcate melodiche.
Il terzo tempo, fiammeggiante, impegna il violino in mirabolanti acrobazie che aprono sempre la strada all’orchestra: è lui che conduce. Il gusto è ungherese, quasi tzigano e in un tripudio di brillantezza conclude il percorso del Concerto in re maggiore op. 77 indicando il posto della felicità.
Vi consiglio di ascoltarlo nell’interpretazione moderna della grandissima Hilary Hahn, una virtuosa dei nostri giorni che con l’incisione di questo Concerto accanto a quello di Stravinskij nel 2003 vinse il Grammy Award per la Miglior interpretazione solista di musica classica con orchestra.
Detto questo, buone vacanze. Io me ne rimarrò in ascolto fino ad agosto, ma prometto di lanciare qualche spunto – come ho promesso a Giusy – sulla pagina social…continuate a seguirla e a condividere.
Veronica Pederzolli
foto di Artem Beliaikin