Non ho mai rifatto lo zaino di arrampicata così velocemente come mercoledì 5 febbraio, quando poi arrivai in Filarmonica di Trento con il fiatone, un’orrenda coda e le mani sporche. Non mi importava perché sul palco c’era Benedetto Lupo, pianista che fu il primo italiano a piazzarsi al Van Clinburn e la cui musica ha fatto e continua a fare la storia del pianismo italiano – e non solo. Conoscevo bene la stoffa di Lupo ma questa consapevolezza non ha limitato la sorpresa: io dal vivo non avevo mai sentito un pianoforte suonare così. E altro che fiatone, Lupo ha letteralmente tolto il fiato. Al telefono poi lo scopro solare, colto e onesto. Un Maestro di quelli veri.
Partiamo dagli inizi, quando per lei il fare musica è sempre stato molto naturale. Come è poi avvenuto il salto verso il Van Cliburn e come si è sentito da giovanissimo su quel palco?
Beh, è stato un salto molto graduale. Quando ho iniziato a vincere concorsi da ragazzino provavo molta emozione, ma vi partecipavo perché era il mio insegnante a chiedermi che lo facessi e mi diceva dove iscrivermi. Non sono cresciuto in una famiglia di musicisti, ma di amanti della musica. I miei genitori tenevano molto alla mia formazione ma non hanno mai vissuto delle ambizioni per mio tramite, anzi, a dire il vero, erano anche un po’ spaventati dalla velocità con cui gli eventi si susseguivano. Un grande grazie va al mio primo, vero Maestro, Michele Marvulli, non solo per i suoi eccezionali meriti didattici, ma anche per non aver mai pigiato l’acceleratore su un’idea di “enfant prodige” quanto piuttosto su un’idea di artista completo e di qualità, idea che mi è sempre rimasta addosso come obiettivo da perseguire per tutta la vita.
E’ stato tutto bello finché poi le cose da fare sono diventate tante e sempre più difficili: il liceo classico in contemporanea con il conservatorio, i concerti, i concorsi internazionali. A quel punto era ormai scontato che senza la musica non potevo vivere e in quegli anni si fece chiara l’idea di musica non solo come vocazione, ma anche come possibile impiego lavorativo. Così suonavo in Italia, suonavo in Europa e utilizzavo i concorsi – che non ho mai amato nel profondo – come ulteriori trampolini di lancio. Ecco, il tipo di lancio dato dal Cliburn in quegli anni era enorme.
In più lei è stato il primo italiano a piazzarsi…
In verità sono stato il primo italiano in assoluto a essere selezionato tra i partecipanti, ma questo l’ho scoperto dopo. Dopo il premio arrivarono subito numerosissime richieste per concerti, fui così sempre spinto ad allargare il mio repertorio, cosa che ben si conciliava con la mia perenne curiosità e voglia di apprendere, ma furono comunque anni faticosissimi. Io, tra l’altro, avevo già cominciato a insegnare.
Effettivamente fu assunto come docente in Conservatorio a 18 anni. Era pronto per l’insegnamento?
Onestamente, col senno di poi, non so se ero pronto, però so di aver sempre insegnato con grande passione sin dal primo giorno. Pensi che quell’anno avevo fatto domanda quasi per gioco in diversi conservatori e arrivai, grazie alle vittorie riportate in alcuni concorsi internazionali e all’attività concertistica già svolta, primo in graduatoria in cinque posti diversi. A quel punto scelsi semplicemente il conservatorio più vicino a casa, quello di Bari. Furono anni duri ma altamente formativi: a volte noi supplenti vivevamo anche situazioni difficili da un punto di vista didattico, le nostre nomine avvenivano con grande ritardo e quindi gli allievi iniziavano le loro lezioni molto più tardi rispetto a quelli delle altre classi. Per me fu una questione di orgoglio personale riuscire a portare tutti, indipendentemente dalle loro qualità, a esprimersi al meglio delle loro possibilità. Posso dire di esser stato un insegnante sicuramente severo e esigente, ma attento ai bisogni di tutti, non solo di chi magari aveva un talento eccezionale.
A proposito di talenti…a un certo punto nella sua classe arrivò, a dieci anni, anche Beatrice Rana. Che bambina era?
È sempre stata una tosta, attentissima e con un’enorme forza interiore che, associata a un talento incredibile, creava un mix perfetto. Beatrice a dieci anni suonava meglio di alcuni professionisti che allora erano in carriera e sarebbe stato facile accontentarsi, ma il talento e la voglia di suonare in pubblico erano così evidenti e chiari in lei che esigevano molto di più, anche da parte mia. E poi la sua tenacia…con un talento del genere avrebbe potuto vivere di rendita ma non l’ha mai fatto e continua a non farlo. È un grande esempio per tutti. Come insegnante posso dire di aver ricevuto moltissimo da lei e da altri bravissimi allievi che ho avuto. Insegnare in fondo è un modo meraviglioso per imparare.
Insomma, la sua è una storia che brucia continuamente le tappe. Si lascia ancora stupire da qualche scoperta al pianoforte?
Assolutamente. La musica ha il dono di svelarci emozioni sempre diverse e spesso fa da specchio al nostro crescere, alle nostre percezioni, alle nostre emozioni. Ad esempio ho sempre amato tantissimo l’op. 118 di Brahms che lei ha ascoltato a Trento, ne ero innamorato sin da ragazzino, ma ho aspettato molto ad eseguirla in pubblico; le emozioni sono così intense, a volte così disarmanti che mi lasciano ancora senza fiato mentre suono. Del resto la musica ci parla in modi diversi a seconda dell’età e, naturalmente, oggi nell’op.118 vedo cose diverse rispetto a quelle che potevo percepire quando me ne sono innamorato da ragazzino. Devo poi confessare che oggi, spesso, è soprattutto la musica che non posso suonare a emozionarmi maggiormente, magari proprio perché non posso possederla con le mie mani; a volte preferisco ascoltare concerti sinfonici, cameristici o andare all’opera piuttosto che ascoltare un recital pianistico.
Ascoltandola dal vivo a Trento mi è parso che nell’interpretazione lei lavori molto sui piccoli gesti musicali per poi arrivare alla grande forma, è così?
Per certi aspetti si, la musica è un linguaggio che si esprime attraverso i suoni e il gesto è legato indissolubilmente al suono. Il mio pensiero musicale tende a identificare un’espressione con una precisa qualità di suono che non guarda puramente all’aspetto coloristico. Il programma con Janáček, Brahms e Schumann poi si prestava forse particolarmente a quest’approccio, ma certamente guardo alla frase e alle note come un insieme di parole e sillabe che formano un discorso musicale, il quale aspira a un’idea “viva” di comunicazione e di bellezza, senza la ricerca di effetti fini a se stessi o indulgenze narcisistiche e senza tirarsi indietro quando si ritiene necessario fare scelte magari inusuali o considerate rischiose. In ogni caso è la qualità del suono scelta per delle note o anche per una sola nota ad essere comunque il veicolo privilegiato di un’idea musicale, a rendere un frammento significativo rispetto a quel che si intende esprimere, almeno per me; non mi ha mai affascinato un’idea astratta di bello che trova l’unica giustificazione in sé stessi e nell’auto-contemplazione.
Non avevo mai ascoltato, inoltre, un pianoforte suonato con una così profonda conoscenza delle potenzialità timbriche e di risonanza…
Mi fa molto piacere! E’ un aspetto del lavoro sul pianoforte che mi ha sempre affascinato e che è certamente frutto di una ricerca individuale che sentivo forte sin da ragazzino, ma so anche di aver condiviso questa ricerca con insegnanti che condividevano questo approccio, anche quando magari avevano a volte una visione estetica di certi autori non necessariamente combaciante con la mia. Del resto il pianoforte, pur essendo fisicamente uno strumento a corde percosse, idealmente può suggerire mille altre cose: una voce, un violino, un violoncello, dei corni, e così via. La magia sta nel capire come riuscire a creare questa illusione. E poi la violenza di Janáček non è la stessa di alcuni dei momenti più drammatici di Brahms, così come un suono può essere lontano o vicino in tanti modi, un pianissimo può avere tante valenze…ci sono così tante sfumature nella musica e il pianoforte spesso può suggerirle; paradossalmente il pianoforte può essere un meraviglioso bluff, ma in positivo!
Se a 20 anni avesse dovuto forzatamente scegliere un piano B oltre alla musica quale sarebbe stato?
Amo molto le lingue e al liceo classico mi appassionava enormemente il greco antico (il latino molto meno, lo confesso!): avrei fatto Lingue o Lettere classiche. A dire la verità ho anche valutato d’iscrivermi all’università, poi però arrivò la docenza in conservatorio e i miei sogni universitari andarono in frantumi. Oggi, anche se ho qualche rimpianto, so che fu un bene, non ce l’avrei mai fatta a fare tutto.
In questo momento sta portando avanti un progetto con il Quartetto Delian che alterna all’Arte della Fuga di Bach composizioni per solo pianoforte del Novecento. Ce lo racconta?
Il progetto nasce da conversazioni inizialmente più leggere e poi sempre più appassionate con Adrian Pinzaru, primo violino del Quartetto Delian, e con Giorgio Pugliaro, direttore artistico dell’Unione Musicale di Torino, nostro amico e “complice” nell’ideare il progetto. L’idea era quella di proporre, in maniera diversa dal solito, alcuni contrappunti bachiani dell’Arte della Fuga, che il Delian Quartet aveva già registrato, includendo ovviamente quello che presenta anche il nome BACH, alternandoli con alcuni brani del Novecento scritti sul nome BACH. Ho pensato così di scegliere quattro approcci diversi; alla provocazione della Valse-Improvisation sur le nom de BACH di Poulenc segue l’estetica neoclassica di deprivazione o “recita” del sentimento del Prélude-Arioso-Fughette di Honegger alla profondità e alla scabra e violenta bellezza dei 2 Ricercari sul nome BACH di Casella -autore che meriterebbe ben altra attenzione!- segue Nino Rota, di cui ho privilegiato l’aspetto più leggero, evidente nei Due Valzer sul nome BACH in programma, anche se lui ha affrontato la questione in modo molto più profondo nelle Variazioni e fuga sul nome di Bach, che però era impossibile includere nel programma per la loro durata, così come era impossibile per le stesse ragioni inserire il Quaderno musicale di Annalibera di Dallapiccola, pezzo meraviglioso e anch’esso sul nome BACH. Dopo questo gioco di alternanze, suoneremo tutti insieme il Quintetto di Schnittke, di una densità emotiva enorme; un’elegia dedicata alla madre defunta, in cui c’è posto sia per il nome BACH sia per una citazione del Dies Irae: l’atmosfera tetra, a volte durissima, dei luoghi musicali -spesso il quartetto suona anche in quarti di tono!- è sciolta solo alla fine in una pastorale che personalmente mi suggerisce un aldilà privo di dolore, in cui tutti i grumi tematici di sofferenza dei movimenti precedenti vengono come a galla, si dissolvono e svaniscono, sino a quando anche la pastorale svanisce, anche se s ha l’impressione che potrebbe continuare all’infinito. Infine una trascrizione per quintetto di una bellissima aria di Bach, sia per omaggiare ancora una volta il suo genio, sia per concludere il programma in maniera più rasserenante. Accanto al gusto degli accostamenti a volte un po’ provocatori, l’attenzione al pubblico è stata una delle componenti costitutive di questo programma: alla fine un concerto è il luogo per stimolare pensieri e curiosità, ma anche per ricevere una bellezza che si declina in tanti modi e che attraversa un enorme caleidoscopio di sentimenti. Chissà che poi qualcuno torni a casa chiedendosi “cosa altro ci sarà sul nome BACH?” e poi cominci a investigarci sopra!
Questi sono autori del Novecento musicale che nello stereotipo sono considerati difficili da ascoltare. È davvero così?
No, questa musica non lo è assolutamente, direi esattamente il contrario! In Germania abbiamo avuto un successo enorme e spero che a Torino e Firenze accada altrettanto.
C’è qualcosa che rimpiange di non aver fatto?
Beh sicuramente si, ma questo è normale. Ci sono state alcune proposte artistiche che non ho potuto accettare perché il calendario era già troppo pieno e che poi, per una ragione o per l’altra, non ho più sviluppato; pezzi che ho amato tantissimo e che non ho mai suonato dal vivo, e così via. Devo però dire che, dopo una lunga carriera non solo come pianista ma anche come insegnante, provo una grande gioia quando ascolto i miei allievi eseguire magnificamente in pubblico qualcosa che io, per un motivo o per un altro, magari non ho mai suonato oppure ho suonato solo per me; è un po’ la soddisfazione di un padre che vede dei figli proseguire verso nuove mete su un cammino già intrapreso in precedenza.
Ho letto che è un amante della cartografia e quindi: mappe tradizionali o Google Maps?
Come si fa a sapere questa cosa qui?! Tutte e due: Google Maps è utilissimo nonostante a volte contenga errori, Google Earth dà un gusto incredibile, ma mi piacciono comunque le mappe tradizionali, quelle fatte veramente bene. E devo dire che, in questo, le vecchie Touring o le vecchie Michelin sono insuperabili. Sono comunque un amante della carta, in ogni ambito; mi piace tenere in mano un libro mentre leggo e non credo che mi sentirei a mio agio nel suonare leggendo da un iPad.
Non ha mai pensato a un sito web?
Questa è una domanda terribile, me l’hanno fatta molte volte e ammetto: sono un disastro per quanto riguarda la comunicazione. Confesso di non essere mai stato un fan di ciò che è mediatico, da quel che vedo ho l’impressione che sui media e sui social ci sia spesso un gran baccano inutile e che azzera la riflessione, anche se riconosco l’importanza di certi mezzi di comunicazione. Devo dire che tanti anni fa però partecipavo ai forum di musica classica; ricordo un newsgroup dove scrivevano alcuni colleghi molto in gamba -c’era anche Fabio Luisi- e la cosa mi piaceva molto, anche se già allora notavo come le discussioni virtuali potessero a volte degenerare in un modo che nella vita normale difficilmente mi capitava di osservare. Ovviamente tutto questo, rispetto a Facebook, credo sia preistoria! Detto questo, un sito sarebbe però un’ottima idea per mettere online registrazioni, date di concerti, dirette e altre cose.
Veronica Pederzolli