Fino a qualche giorno fa non sapevo chi fosse Jóhann Jóhannsson. Sono inciampata per caso nella sua storia a Roma lo scorso fine settimana. Ma ancora dovevo capirlo.

E tutto iniziò venerdì al Chiostro del Bramante davanti a una donna persa con gli occhi sbarrati, i capelli elettrici e una mano chiusa, decisa, attorno al collo di un gatto. È un ritratto che Lucian Freud fece alla sua prima moglie e che sembra scavargli l’anima come avrebbe potuto fare il nonno, Sigmund Freud. Sono soprattutto amici e parenti i suoi soggetti preferiti, che spesso dipinge nudi, mostrandone tutte le cicatrici dell’esistenza: “voglio che la pittura sia carne”, affermava.
Nella Londra ubriaca del dopoguerra nella notte lo raggiungeva l’amico Francis Bacon, omosessuale tormentato i cui ritratti, inseriti in una cornice a scatola, gridano dell’isolamento dell’individuo. Lo stesso fa quel lago nero dell’ineluttabilità del destino di Micheal Andrews, che afferma: “Pensavamo, mi sembra, che le nostre reazioni nei confronti delle persone, delle circostanze e della vita fossero più importanti che coltivare un’idea sistematica di pittura”.

È la Scuola di Londra, che incanta per la verità e l’allucinazione della sua pittura. A metà della mostra però comincio a chiedermi: che cosa è accaduto musicalmente in quella Londra permissiva, confusionaria e scatenata del dopoguerra? Non so darmi una vera risposta, penso ai Beatles e ai Rolling Stones, e il mio guardare si confonde sempre più con ascolti classici che emergono alla mente, in maniera del tutto personale e poco motivabile.
Stacco con gli impegni romani e lunedì, a casa, c’è ancora la Scuola di Londra a risuonare. Così mi faccio un giro sul web e scopro che su Spotify c’è una playlist – anche questa personalmente creata da Mokadelic – dedicata a quella mostra al Chiostro del Bramante: tra Beatles, Byörk e Brian Eno c’è anche l’islandese Jóhann Jóhannsson, che non so assolutamente chi sia.

Comincio ad ascoltare, mi conquista e mi riporta a due compositori che adoro: Steve Reich e Arvo Pärt. Scopro che è morto esattamente due anni fa e decido che su questa storia dovrei farci un pezzo.
Famosissimo alle orecchie ma sconosciuto nel nome, Jóhannsson è quello che nel 2016 ha vinto un Golden Globe per la colonna sonora di The Theory of Everything, lo stesso ad aver creato le colonne sonore dei più famosi film di Denis Villeneuve. Ma Jóhannsson non ha composto solo musica da film e non ha nemmeno raggiunto lì i suoi apici più importanti. Basti ascoltare Orphée, album uscito nel 2016 per poco di meno che Deutsche Grammophon, per capirlo. È post-minimalista, neoclassico, suggestivo, irrequieto e – nonostante successivo – le affinità con la Scuola di Londra sono moltissime. “Mi assillava la tessitura del suono, m’interessano le forme minimaliste, come dire le cose nella maniera più semplice possibile, come far sgocciolare le cose nella loro forma più originaria”. Una sorta di carne sonora insomma e un’ossessione verso la materia similare a quella Frank Auerbach, che confonde i confini tra pittura e scultura. Emerge nella musica di Jóhannsson la caducità dell’esperienze, la fragilità di chi le vive. E tra questa Orphée parla di cambiamento, in una gestazione continuamente rivista e durata per sei anni. Si parte dalla fuga dal mondo moderno con Flight From The City, che crea uno spazio-temporale avulso dal qui ed ora in cui comunque il procedere non si intimidisce: è lo spazio del pensiero, della riflessione, che mai si libera di una certa malinconia. Orphée è anche un album neoclassico che riguarda all’ossessione per l’autoradio dell’Orfeo di Cocteau in A Song For Europe, in cui protagonista è la voce di una ragazza registrata durante la Guerra Fredda, o che cita Bach per il “patto con il caos” fatto da un amico la cui vita è fuori controllo. Ci sono anche le Metamorfosi di Ovidio in A Pile Of Dust.
Una traccia dopo l’altra regalano un percorso incredibile, da ascoltare soli.
Deutsche Grammophon, dopo aver toccato con mano la qualità artistica di questo musicista, ha deciso di ricordare Jóhannsson con una retrospettiva. Così l’anno scorso ha pubblicato 12 Conversations With Thilo Heinzmann, la cui premier si ebbe nel 2016 a Londra. “Nei tre anni della nostra stretta collaborazione era nata una vera amicizia”, scrive Deutsche Grammophon, “la forza della sua musica vivrà ancora e continuerà a commuoverci”.
Veronica Pederzolli