Sono passati i tempi del Sacre per Igor Stravinskij, è il 1925 e Nizza lo vede rientrare in una chiesa, dopo anni di assenza. Poco prima aveva scritto una lettera a Sergej Pavlovič Djagilev, il suo grande compagno di avventura per Les ballets russes: qui raccontava del suo riemergere fideistico come una profonda necessità mentale e spirituale. Con quella stessa lettera abbandonò l’amico impresario e salutò quel mondo strabiliante che con lui aveva creato e che ora cominciava a guardare come incarnazione dell’arte profana, peccaminosa.
Nel 1926 si riavvicinò così alla chiesa ortodossa, che aveva abbandonato all’età di quattordici anni, e subito compose il suo primo brano sacro, a quarantaquattro anni. Era un piccolo coro a cappella, Otsche nash, un padre nostro in slavonico, al quale fece seguire nel 1932 Simvol verï (Credo) e Bogoroditse Dievo (Ave Maria) nel 1934. Per molto tempo non parlò di questo riavvicinamento nel timore di cadere nello stesso errore in cui Wagner inciampò, secondo Stravinskij, nel Parsifal: la confusione, la non netta demarcazione tra la sfera spirituale e religiosa, intimamente privata, e quella estetica.
Fu la lingua slava, la stessa con cui da piccolo recitava le preghiere, a favorire la rinascita di questo sentimento religioso e l’inizio di una ricerca sul sacro che sempre riscopre in una lingua il suo fattore scatenante. Un’enfasi, quella linguistica, confermata da una conversazione con Craft: nel 1925 passando per Genova trovò casualmente, venduta su una bancarella, la biografia di San Francesco d’Assisi, scritta da Jörgensen. Lo sorprese soprattutto l’uso del provenzale che S. Francesco faceva, preferendolo all’italiano o al basso latino per il suo carattere incantatorio. Nacque così in Stravinskij l’idea che «un testo per musica poteva essere dotato di un carattere monumentale traducendolo – per così dire a ritroso – da una lingua secolare in una lingua sacra». L’antico slavo ecclesiastico assunse così agli occhi del compositore quell’aura sacrale che nel russo, “la lingua esule del suo cuore”, non riuscì a trovare.
Ed ecco che questi tre cori ci raccontano di un probabile tentativo di riavvicinamento spirituale a quella terra natia dalla quale Stravinskij si era allontanato nel periodo neoclassico, fisicamente e musicalmente.
Ma Stravinskij non è certo tipo da storie lineari e nel 1949 ci mette il colpo di scena: prende quei tre cori, scritti nella cara e familiare lingua slavonica, e li traduce in latino. Catapulta i suoi ricordi di fanciullezza sul palcoscenico.
Che gioia scrivere musica su di un linguaggio convenzionale, quasi rituale, di un livello così alto che si impone di per se stesso.
I. STRAVINSKIJ, Chroniques de ma vie
Galeotta fu, ancora una volta, la lingua: egli vide nel latino e nel rito cattolico la possibilità di realizzazione di quell’universalità tanto cercata, della quale il rito orientale è deficitario per la varietà dei particolarismi nazionali. Il Pater Noster e l’Ave Maria, ormai brani autonomi e neoclassici nel riproporre in veste nuova un brano del passato,vennero eseguiti e registrati lo stesso anno. Il Credo, ineseguibile nella versione in slavonico del 1932 a chiunque non conoscesse la pratica della cantillazione ortodossa, continuò a rimanere ineseguibile nella traduzione in latino. Un brano che oppose una tale resistenza al cambio di veste da far sì che nel 1964 lo riprendesse in mano per riscriverlo, nuovamente in slavonico ma con la stessa “destinazione palcoscenico” dei latini del 1949. Lo conferma una lettera del 1965 che Stravinskij scrisse all’editore di questa terza versione del Credo, nella quale chiese che non venisse apposto sotto il titolo l’aggettivo «Orthodox». Solamente in piena fase seriale e con un procedimento del tutto neoclassico Stravinskij riuscì a trasformare il suo Credo, dalle radici così russe, in un brano che potesse essere cantato in concerto e non solo in un ambito liturgico, rendendolo così finalmente eseguibile a chiunque.
Quella di questi tre cori è una piccolissima finestra sulla vastità dell’operato di Stravinskij ma incoraggia, come molti già hanno fatto, una forte messa in discussione di periodi stilistici stravinskijani quando basati solo sul dato cronologico. I periodi russo, neoclassico e seriale di Stravinskij devono essere intesi come categorie interpretative di una produzione continuamente oscillante tra questi. La prova più semplice? È proprio quella dei Tre cori: nella prima scrittura decisamente russi in periodo neoclassico, nella seconda neoclassici ma con una base russa ancora piuttosto forte. Infine, il Credo del 1964: in seguito all’adozione della tecnica seriale un ritorno alla Russia in chiave neoclassica.
E ora ascoltatevi almeno il Credo, che ne vale la pena. (Mi spiace non consigliarvelo nella versione della The Simon Joly Chorale, ma in quella diretta da Stravinskij, che adoro come compositore tanto quando non sopporto come direttore). Su YouTube c’era solo questa.