Francesco è uno dei più grandi clavicembalisti del panorama internazionale. Dopo anni da solista sotto artisti del calibro di Minkowski o Savall, comincia a essere chiamato sempre più spesso in qualità di maestro al cembalo, insegna a Basilea e dal 2019 dirige il prestigioso ensemble il pomo d’oro. Ha fatto e fa altre mille cose – sempre alla tastiera – eppure dichiara di annoiarsi facilmente. È però un ragazzo semplice, non solo perché “possiamo darci del tu?” è stata la sua prima frase al telefono, ma anche perché mi ha fatto giocare a CSI per una giornata alla ricerca di un suo curriculum dettagliato sul web. Tre anni fa dopo l’integrale dei Brandeburghesi di Bach a Verona mi è capitato, assieme al mio compagno e ad amici, di mangiarci una pizza: è la verità di questa persona a far germogliare della musica così. Vera.
Artista figlio di artisti. Oltre alla vita, qual è stato il più grande regalo di Fosco Corti e Anna Seggi?
Beh direi che quella di Fosco Corti è un’eredità interrotta perché praticamente non ho conosciuto mio padre: un qualcosa di molto indiretto quindi, che si è formato da ciò che lui ha fatto, dai racconti e dai suoi libri. Ho studiato organo sui libri di mio padre. Devo molto, moltissimo di più a mia mamma che mi ha insegnato tutto quello che è la musica. Lei ha avuto un approccio sempre molto ludico al suonare, al cantare, rendendo la musica un qualcosa di domestico, di normalmente quotidiano e molto positivo. Ora ho la fortuna di fare di lavoro ciò che facevo come hobby da ragazzino e mi è andata bene, perché è l’unica cosa che so fare in vita mia.
La cosa curiosa è che hai iniziato come organista. Come è avvenuto il cambio di rotta?
Veramente i primi passi li ho fatti come pianista, perché mia mamma è pianista e in casa avevamo un pianoforte a coda. Suonavo però malvolentieri il repertorio tardo, quello romantico e il successivo. Così, dopo una breve sperimentazione al violoncello, sono passato all’organo: mi convinceva sia lo strumento che il repertorio. Il clavicembalo l’ho incontrato tardi, verso i sedici, diciassette anni perché ero affascinato da un repertorio che funziona solamente al cembalo, come avviene per tutto il barocco francese. E così ho scelto, a dire la verità più per il repertorio che per lo strumento in sé, nonostante il clavicembalo rispetto all’organo consenta il contatto diretto con il pubblico, che è una cosa che mi piace molto.
Rispetto all’organo il clavicembalo è apparentemente più arido di colori. È davvero così?
Sono entrambi due strumenti terribilmente meccanici. L’organo alla fine del racconto è un’enorme macchina controllata da un piccolo musicista, con solo un certo grado di controllo sul suono. Sul cembalo invece il contatto è molto sottile nel suo essere uno strumento così primitivo: due pezzi di legno e delle corde. C’è una tremenda descrizione, che credo sia Otto Klemperer a fare, del suono del clavicembalo come quello di due scheletri che fanno sesso su un tetto di latta. E un po’ è anche vero.
Ascoltandoti si nota una grandissima capacità di far respirare lo strumento e di conseguenza la musica, il fraseggio stesso. Come ci riesci?
Non lo so! Grazie mille per il complimento, perché questa è una cosa per me molto più importante di molti altri aspetti dell’esecuzione. A casa si è sempre cantato molto e il canto è sempre stato la base fisica del fare musica: ho sempre cercato di rendere vocale il movimento delle dita. Poi, come dire, è una cosa talmente istintiva che non so bene come mi riesca. In questi anni di insegnamento ho dovuto verbalizzare costantemente ciò che faccio e alcune cose mi sono più chiare ora, ma alla fine l’esecuzione rimane sempre in gran parte un atto istintivo: se si dovesse pensare meccanicamente a ogni cosa da fare non si potrebbe fare musica. Sarebbe come fare un sorriso spontaneo di fronte a una telecamera: tremendamente difficile.
La tua carriera è prevalentemente all’estero, tra l’insegnamento a Basilea e l’attività concertistica. Ti senti un “cervello in fuga”?
No, mi sembra un’espressione così triste, non sto scappando da nulla! In fondo non mi considero neanche troppo italiano, sono profondamente allergico a ogni tipo di nazionalismo. So di essere profondamente italiano (non riesco a staccarmi dal mio accento toscano!) ma non ho studiato clavicembalo in Italia e nell’andarmene non mi è sembrato di essermi privato di qualcosa. L’Italia è un posto bellissimo, si vive benissimo, si mangia benissimo ma ci si lavora piuttosto male: per l’inizio della carriera non mi è sembrato un grande investimento rimanere. Inoltre con tutti i viaggi che comporta l’essere musicista, soprattutto nella musica antica, mi sembrerebbe un po’ stupido sentirmi ancorato al mio paese natale. Cerco di sentirmi a casa un po’ dappertutto, altrimenti diventerei matto.

Fino a qualche anno la musica antica era messa in bacheca, lasciando nelle mani di pochissimi questo incredibile repertorio. Ora invece stanno nascendo moltissimi dipartimenti, con numerosissime iscrizioni da parte di giovani. Che benefici ne sta traendo la musica antica?
Il primo risultato positivo del movimento della early music (così è più carino perché antica sa proprio di museale) è che il repertorio delle sale da concerto “classiche” si è enormemente ampliato e continua a farlo, basti pensare a tutto il lavoro di riproposizione di musica del tardo medioevo. Ciò che oggi si considera classico è una fetta decisamente più ampia rispetto a 30, 40 o 50 anni fa. L’altro aspetto molto interessante è che c’è moltissima ricerca: c’è ancora una marea di lavoro da fare sugli strumenti, sulle condizioni di presentazione di questa musica, sul modo di suonare. Questi studi spesso permettono di presentare in modo innovativo il grande repertorio del passato: è una cosa fantastica. C’è un grande problema di fondo: noi siamo profondamente diversi dal pubblico che ascoltava la musica antica nel suo tempo, abbiamo aspettative diverse e siamo formati da tutt’altre esperienze. Pensiamo ad esempio che Bach ha sentito la sua Passione secondo Matteo una manciata di volte nella sua vita, mentre noi la sentiamo venti volte l’anno: è musica non pensata per essere consumata in questo modo. Se Handel tornasse e mi vedesse stasera fare un concerto con la sua musica mi prenderebbe per uno stupido, per uno che non sa vivere il suo tempo. Quello che stiamo facendo è più un’operazione intellettuale che artistica.
E tra tutti i Bach che hai sentito preferisci le interpretazioni di Ton Koopman o quelle di Gardiner?
Decisamente Gardiner. Le sue sono interpretazioni più forti, più interessanti, mi sembra abbia più coraggio musicale. Koopman tende a fare cose molto lisce, curate, estetizzanti, mentre Gardiner lavora più di pancia.
Del tuo Bach invece che diresti?
Ah non lo so, non sta certo a me giudicarmi! Tendo a fare molta ricerca in preparazione. Per esempio per il lavoro che ho fatto per il primo volume dei concerti di Bach con Pomo d’Oro – uscirà a fine marzo- ho davvero recuperato le fonti di ogni concerto per studiarle con occhio critico, per capire che informazioni potessi trarne e che decisioni prendere di conseguenza. Ovviamente, fatta questa operazione di studio delle partiture uno un po’ se la dimentica, perché a un certo punto bisogna fare musica. E comunque non sono di quei musicisti che pensano di fissare la musica – soprattutto in registrazione – per l’eternità: credo che tra un paio di anni avrò già cambiato idea su come si suona, quindi cerco di prenderla alla leggera.
Con il Pomo d’Oro a gennaio sarai occupato con l’Orlando di Handel, opera di un tedesco, commissionata da un inglese e – anche all’epoca – sempre eseguita da italiani…
Handel è un esempio fantastico di cervello in fuga non in fuga, nel senso che lui, per quanto ne sappiamo, si è sempre sentito a suo agio in ogni posto in cui è stato, almeno musicalmente. Orlando fa parte della piena maturità, era a Londra con un cast di stelle italiane. È una partitura piuttosto complicata perché basata sull’Ariosto, i cui personaggi – rispetto a quelli del Tasso – sono piatti psicologicamente e rimangono piatti anche nell’opera: sono quasi delle maschere. Un libretto strano dunque rispetto ai classici, in cui comunque la presenza di un Orlando pazzo consente a Handel di scrivere musica meravigliosa, prendendo dei bei rischi. Comincia per esempio a rompere lo schema dell’aria con da capo per avere un flusso drammatico rapido, frenetico e molto moderno.
Se questa sera potessi portare a cena qualcuno, chi sceglieresti?
Mi piacerebbe andare a cena con Martha Argerich perché penso che sarebbe tremenda! Ho la fortuna di parlare lo spagnolo argentino e quindi credo ci capiremmo molto bene. Mi ha sempre molto affascinato la sua persona, non solo per il modo che ha di suonare ma anche perché deve essere completamente imprevedibile e molto affascinante. Potrebbe essere lei o Alfred Brendel, che ho avuto il piacere di conoscere, così cortese, interessante e ricco di interessi extramusicali. Oppure ancora Alexander Lonquich, intelligentissimo e una persona che ama condividere quello che fa, cosa assolutamente non scontata. Accidenti, ho scelto tre pianisti!
Pappa al pomodoro o pici al ragù di cinghiale?
Pappa al pomodoro perché sono vegetariano, ma non la digerisco. C’è un altro piatto?
Pink Floyd o Dire Straits?
Pink Floyd.
Una passione oltre alla musica?
La cucina e i viaggi, il più possibile abbinati.
Nella prossima vita faresti ancora il musicista?
Ah non ne ho idea! Non ci credo molto devo dire, e poi il musicista non è un lavoro che si sceglie. Però se mi dovesse andare bene, si! Volentieri…