Sergej Ėjzenštejn spese la vita a disprezzare suo padre Michail, l’architetto che portò lo Jugendstil a Riga con i suoi sedici edifici colmi di colori, dee, draghi e sirene. Sergej lo chiamava “il pasticcere” dell’architettura e si divertiva a mostrare ai compagni di scuola la sua ultima spruzzata panna montata. Non parliamo poi dell’aria da signore che amava mostrare: nelle sue memorie il regista scriveva con un certo ghigno non solo che il padre aveva quaranta scarpe di cuoio che il cameriere Ozols era incaricato di tenere a registro e catalogare, ma anche che aveva sperperato tutto il loro denaro in feste e balli dalla pura apparenza. Tornato poi a casa la sera Michail si chiudeva sul pianoforte, con Brahms, Schumann e Strauss.

Il pianoforte fu anche una delle poche cose che rimase a Michail quando la moglie Julia decise di andarsene e volle a San Pietroburgo tutto l’arredo di casa: oltre allo strumento a Riga rimasero tre letti e uno sgabello. Così Sergej per giorni ascoltò la collera del padre, veemente sui tasti del pianoforte, amplificando la propria nei suoi confronti: il grassottello impettito era riuscito perfino ad allontanargli l’amata madre. Per Michail però la musica doveva rappresentare una via di fuga, una tale roccaforte dal presente che lo spinse a proteggere il figlio nel modo in cui proteggeva se stesso. In quegli anni lo portò a vedere così tante opere di Čajkovskij, Borodin, Bizet o Glinka che a tredici anni Sergej scrisse il libretto di un’opera comica aggiungendone poi le scene a mo’ di fumetto.
Ma fu la Rivoluzione ad indicare a Sergej la strada quando, uscito di casa a diciassette anni, aveva deciso di iscriversi a Ingegneria edile nella stessa scuola del padre.
La rivoluzione mi ha assegnato il ruolo più prezioso che ci sia: ha fatto di me un’artista
Sergej Ėjzenštejn
Nel 1918 il regista si unì all’Armata Rossa combattendo per tre anni contro l’Armata Bianca, in cui invece serviva suo padre, che morì per arresto cardiaco nel 1920. Sergej lo scoprì tre anni dopo e la cosa non lo toccò.
Ma la figura del padre continuò a condizionare fortemente la vita e la carriera del regista. Non solo i “cattivi” dei suoi film ricevettero spesso qualche tratto di Michail, ma quando Sergej – strapagato a Hollywood e nel pieno della bellavita- finì per comprarsi un paio di scarpe costose smise di radersi e di vestirsi elegantemente. Temeva di diventare come il padre.
Michail però una cosa era riuscito a passarla: l’amore per la musica. E Sergej non riuscì mai a nascondere o ostacolare questo lascito.
Lo dimostra la Corazzata Potëmkin, in cui la musica pervade ogni istante della pellicola decretandone l’esito anche grazie alle musiche prese in prestito da Šostakovič: il culmine sta forse nella sequenza della Scalinata di Odessa.
Lo dimostra nel 1938 il kolossal Alexandr Nevskij, di gran lunga più fine dal punto di vista musicale poiché frutto di una stretta collaborazione con Sergej Prokof’ev, che compone la musica per le scene di Ėjzenštejn amplificando le intuizioni del regista con una comunanza di linguaggio. Da un lato la dissoluzione tonale, dall’altra l’innovazione – spudorata – del montaggio. Ne risulta un vera e propria opera sotto forma di film il cui marchio è evidentemente russo. Così russo da meritare una pacca sulla spalla da Stalin che, dopo un «Sergej Michajlovič, in fin dei conti lei è un buon bolscevico», nel 1940 gli fa curare le scene de La Valchiria – tra le preferite di Michail – per suggellare il suo patto con Hitler.
Dell’importanza della musica nell’arte del grandissimo regista se ne potrebbe parlare per giorni, ma per far capire la portata dell’ispirazione musicale basti citare la teoria del paesaggio musicale esposta nel saggio La natura non indifferente del 1945. Qui Ėjzenštejn guarda alla musica come modello estetico, linguistico e comunicativo. Rifacendosi a Wagner e Schönberg riconosce al paesaggio il compito di «finire di raccontare emotivamente ciò che solo la musica riesce a esprimere con assoluta pienezza». Ciò che è inesprimibile con altri mezzi.