Sui giornali ne parla tutto il mondo, su Facebook l’estratto di cinque minuti conta 2,5 milioni di visualizzazioni e quasi 15000 condivisioni: il “ghetto”, con tanto di felpe e street dance, ha fatto tappa all’Opéra Bastille con l’appena terminata produzione de Les Indes Galantes di Jean-Philippe Rameau.
E i motivi per cui parlarne di certo non mancano, a partire dal numero di repliche messe in scena tra il 16 settembre e il 15 ottobre. Dodici. Un numero inverosimile per un italiano del ventunesimo secolo che in pratica l’opera settecentesca non l’ha mai sentita, ma anche un numero poco verosimile per un italiano dell’epoca che già faceva il conto alla rovescia nell’attesa dell’aria, come successe a Goldoni. E poi dodici repliche alla Bastille, il secondo teatro al mondo per grandezza, così poco adatto al repertorio barocco. Il grande direttore Leonardo García Alarcón ha dovuto far chiudere un occhio alla sua coscienza filologica e ampliare la strumentazione originale con qualche intruso, comunque rispettando la cinquantina di esecutori che nel 1735 ne fecero la prima esecuzione. Il risultato musicale è convincente e originale: con la sua Cappella Mediterranea Alarcón non scende a compromessi e cerca una propria lettura che continua a giocare negli equilibri con la ricchezza coloristica della partitura. Si ascolti ad esempio la grande diversità del suo Rondeau des sauvages rispetto all’altrettanto famosa esecuzione di Marc Minkowski con Les Musiciens du Louvre. Se della seconda colpisce la brillantezza veloce del gusto di qualche anno fa, l’interpretazione di Alarcón affascina per il continuo scavare nel fraseggio.
E poi va detto: questa produzione fa parlare soprattutto per la riuscita della rivisitazione contemporanea. Les Indes Galantes, l’opéra-ballet che già alla sua nascita fece scalpore per l’argomento attuale e globalista, non frena la fantasia e lascia spazio allo stupore verso la novità: ve la immaginate la faccia di un francese che nel 1735 scopre l’esistenza dei vulcani? Diviso in 4 entrée racconta infatti del viaggio di Cupido che, di fronte a un’Europa in guerra, decide di dirigersi verso le “Indie”, intese nell’accezione di tutto ciò che è lontano e sconosciuto: in questo caso Turchia, Perù, Persia e America del Nord.
Effetti stupefacenti a mò di fuochi d’artificio le cui pagine oggi però ci trovano molto più resistenti. Ecco perché appare che esse gridino alla rilettura registica contemporanea e questa appena proposta dall’Opéra National de Paris non è certo la prima (si ricordi per esempio l’allestimento del 2014 diretto da Christophe Rousset su regia di Laura Scozzi).
Ma per questa nuova versione la miccia fu accesa dal successo del cortometraggio del regista francese Clément Cogitore che nel 2017 aveva sovrapposto al Rondeau des sauvages la danza krump della comunità afro-americana di Los Angeles.
Così fu presto deciso di estendere l’esperimento a tutta l’opera, restituendo il quadro multietnico della società contemporanea attraverso azioni coreografate che già per Rameau erano parte integrante della musica. Ma se c’è chi affermò che Rameau fu un alfiere del predominio della musica sulla parola, qui possiamo dire lo stesso della danza sulla musica – e senza una connotazione negativa. Con la compagnia di danza Rualité è la strada, la sua vita a impossessarsi del viaggio di Cupido nelle coreografie Bintou Dembélé. Si racconta delle attraversate del Mediterraneo nel primo atto, l’impero mediatico regna il secondo, la schiavitù sessuale accende le luci rosse nel terzo e il krump torna nel quarto, quando le diversità tentano danzando un’apparente riconciliazione. Il quadro incanta nella sua contemporaneità disarmante e il pubblico non può che tornare a casa con riflessioni e interrogativi sul presente. Non è anche questo il senso dell’arte?
Poi certo ha anche goduto di questa perla che per anni scomparse dal repertorio grazie a personaggi quali Gluck, Berlioz o Wagner, ma la cui bellezza della scrittura di Rameau garantì 50 repliche nei primi tre anni. Fu poi Debussy agli inizi del Novecento a sciogliere le vele con il suo famosissimo: «Abbasso Gluck, viva Rameau!». E così -almeno in parte – fu.