Carrozze a mantice incolonnate a quattro lungo le strade, tramvai meccanici, boutique e gioia di vivere. Il ritratto del boulevard di inizio Novecento è la storia della nascita del Novecento musicale, con i suoi café stracolmi di scambi intellettuali. Perché a Parigi non si poteva che nascere o arrivare: ciò che qui cominciava l’Europa l’avrebbe continuato.
I saluti per strada vivevano di dotte conversazioni di moda, teatro e letteratura e la “stretta intimità” degli inviti a feste affollatissime ostentava sempre una composizione inedita. Qui sta crescendo Proust, Picasso attende in treno di arrivarvi per il suo primo soggiorno e Gustave Charpentier fa di Parigi il personaggio principale della sua Louise, andata in scena il 2 febbraio 1900.
La città qui si guarda luminosa, incalzante e protettiva verso l’operaia Louise che con il suo amante cerca l’emancipazione dai boriosi valori borghesi. La loro casa a Montmartre si ubriaca di viste parigine, frequentata da bohémiens e grisettes, giustifica e colora il pallore dei personaggi. Una tentazione, un’ossessione quella di Parigi, alla quale Louise non può resistere: è la stessa città a governare il suo destino, come quello di tutte le piccole vite inserite nel suo contenitore così grande e massificato. E così, proprio come accade in una fabbrica, Parigi distrugge l’individualità e trasforma in burattini soggiogati al suo stile di vita.
Il pubblico accolse entusiasta Charpentier che aveva regalato al popolo un’opera propria, la prima opera realista. Non del tutto concordi con il pubblico e parte della critica furono il poeta Pierre Louÿs e l’amico Claude Debussy, entrambi all’Opéra-Comique quella sera. Appena giunto a casa Louÿs non perse occasione per raccontare a Debussy che Vincent D’Indy – una vera istituzione musicale all’epoca – se ne era andato a metà rappresentazione sbattendo le porte. Lo stesso Debussy non nascose il suo disappunto nella risposta, paragonò quell’ascolto a una bella sbornia e lo definì adatto ai soli che non amano la bellezza.
Con opere come Louise, qualsiasi tentativo per tirarli fuori dal fango non potrà che fallire.
Claude Debussy
D’altronde Debussy stava per battezzare i tre Nocturnes dove voleva che Parigi si guardasse in modo molto diverso. Se Charpentier trasse ispirazione dal naturalismo di Zola che in quegli anni ormai si era dato alla fotografia, Debussy scelse un poema di Swinburne pubblicato nel ’76 nella revisione di Mallarmé e ne fece uno “studio di grigi”, il cui approccio richiamava quello di Monet sulla tela. In Nocturnes l’aria parigina si annusa come primigenia suggestione, come simbolo del simbolo che mai si palesa chiaramente: l’ascoltatore per sentirla deve volerla percepire. Parigi non cattura, non costringe, ma vuole essere ascoltata. E infatti così il compositore descrisse all’amico Paul Poujaud la nascita di Nuages, il primo tempo di Nocturnes:
Era una notte, sul ponte Solferino. Tardissimo nella notte. Mi ero appoggiato alla balaustra del ponte. La Senna, senza un’increspatura, come uno specchio appannato. Passavano delle nuvole, lentamente sopra un cielo senza luna, numerose nuvole, né troppo pesanti né troppo leggere: delle nuvole. È tutto qui.
Claude Debussy
Per par condicio sappiate che D’Indy sbatté la porta in faccia anche a Debussy: è famosa la sua irritazione di fronte all’impossibilità di trovare per questi Nocturnes una categorizzazione tradizionale. Era il Novecento musicale, che alzatosi in piedi faceva i primi passi.